sabato 7 marzo 2009

Ricomporre la diaspora comunista


di Gianni Fresu *
su la Rinascita della Sinistra del 27/02/2009

La ricomposizione della diaspora del ’98, per ricostruire insieme un’alternativa comunista forte e credibile in Italia, penso sarebbe la migliore risposta possibile ad una depressione economica mondiale che non è solo crisi del cosiddetto neo liberismo. La contraddizione è del capitalismo in quanto tale – delle sue regole di produzione, sfruttamento e appropriazione delle ricchezze – di ciò dobbiamo tenere conto, sapendo bene che la natura ciclica di queste crisi è fisiologica alle stesse modalità di espansione del capitalismo.
Le ragioni della frattura sono state ampiamente superate su tutti i versanti e contro l’ipotesi del riavvicinamento non vale l’argomento sulle presunte diversità politiche e culturali che ancora sussistono. Già ora all’interno di PRC e PdCI sono presenti orientamenti diversi e ciò non è di certo un ostacolo, inoltre vale la pena ricordare che veniamo tutti dalla stessa scommessa: la rifondazione di una teoria e una prassi comunista in Italia come risposta alla svolta della Bolognina. È chiaro, pensare di fare una semplice fusione di gruppi dirigenti sarebbe un errore destinato a non produrre nulla di buono, la riunificazione deve partire dalla presentazione di liste unitarie per le europee per poi divenire processo organico di integrazione e riconoscimento reciproco, attraverso la diffusione orizzontale e collegiale degli strumenti di elaborazione e direzione politica.
Il percorso di riunificazione deve essere necessariamente processuale ma non indefinito nel tempo, la difficile situazione interna ed internazionale non ce lo consentirebbe. La storia ci insegna che le recessioni hanno sempre dato luogo non solo al netto peggioramento delle condizioni di vita e lavoro delle masse popolari, ma a fasi tragiche di imbarbarimento delle relazioni sociali, di involuzione politica e culturale. Ci troviamo nel pieno di una fase di «crisi organica del capitalismo», ed è esattamente in simili contesti che hanno, in genere, luogo i peggiori processi di “modernizzazione” dei rapporti economici e sociali, attuati sempre attraverso la passivizzazione coatta delle grandi masse popolari, ciò che Gramsci definiva «rivoluzioni passive».
A fronte di una situazione tanto complessa il cannibalismo del PD, che ha speso tutte le sue energie per mettere fuori causa la sinistra di classe, anziché impegnarsi in un’opposizione reale alla destra, si è ritorto contro chi l’ha praticato. L’illusione del PD – un “moderno” partito interclassista, che avrebbe dovuto congiungere gli interessi del capitale e del lavoro – si è schiantata sugli scogli di una realtà ben più complessa dei sogni veltroniani. Il PD si è rivelato, in tutta la sua fragilità, un immenso comitato elettorale strutturato per camarille, un agglomerato composto da consorterie condensate attorno a singole personalità che controllano partito, istituzioni e collegi senza alcun disegno complessivo. Già a fine Ottocento la dissoluzione del liberalismo italiano portò al tentativo di assemblaggio dei due raggruppamenti tradizionali della Destra storica e della Sinistra liberale per formare un unico «blocco costituzionale» presentato come baluardo contro le due ali estreme della reazione e della rivoluzione. Oggi come allora più che di “trasformazione del sistema politico” si deve parlare molto più prosaicamente di «trasformismo» e il divampare in tutta la sua virulenza della questione morale ne è una conferma. L’attuale inservibilità politica del PD dimostra ulteriormente quanto fosse avventata l’idea della “costituente della sinistra”, che puntava tutte le chanche di un rilancio della sinistra sul rapporto organico con il partito di Veltroni. Ricomporre la diaspora non significa e non deve significare però chiudersi in un recinto identitario, ma al contrario fare un investimento per l’unità della sinistra, mantenendo anche un interlocuzione dialettica, non subalterna, con le altre forze democratiche. Il PRC è nato sulla base del binomio autonomia e unità, quella deve tornare ad essere la nostra bussola di orientamento per rifuggire ogni tentazione di settarismo minoritario e insieme di opportunismo. Oggi più che mai si sente il bisogno di un partito comunista capace di porre, attraverso il conflitto, al centro dell’agenda politica le questioni del lavoro, di plasmarsi organicamente sulle esigenze delle masse popolari, da qui possiamo ripartire.

* Comitato politico nazionale PRC

Ripartire dal lavoro


di Marco Ligas
dal Manifesto Sardo

La campagna elettorale è finita e riemergono, fuori dai proclami propagandistici, i vecchi problemi. Sono circa un migliaio i lavoratori, compresi quelli dell’indotto, che rischiano di perdere il posto all’Euroallumina. Non bastano gli incatenamenti ai cancelli delle fabbriche o le marce dei sindaci per le strade della capitale per modificare decisioni assunte prima delle elezioni e formalizzate successivamente. Purtroppo questi lavoratori non sono i soli in Sardegna, la condizione degli occupati delle altre fabbriche è analoga, a rischio di licenziamento o di cassa integrazione. La crisi investe tutto il settore industriale, quello che nei decenni precedenti è stato presentato come il volano della rinascita dell’isola.

Per capire meglio la dimensione della crisi è utile partire da alcune informazioni diffuse dall’Assessorato regionale al lavoro già nel mese di novembre. Si sottolineava allora come le esportazioni rappresentino una variabile importante per la solidità di una struttura produttiva, per il suo livello di competitività e la sua dinamica. Questi indicatori, validi in generale, lo sono soprattutto in Sardegna. A causa della sua modesta estensione e della limitata popolazione, infatti, l’isola non può basare il proprio sviluppo puntando soltanto sul mercato interno. Ebbene, i dati sulle esportazioni (forniti dall’Assessorato) indicano una debolezza della struttura produttiva. Nel 2004 la Sardegna si trova al 14° posto nella graduatoria nazionale. Questa posizione, già di per sé poco rassicurante, peggiora se si tiene conto che la composizione delle esportazioni è rappresentata in larga parte, per il 75%, da prodotti petroliferi e chimici. Ma questa produzione è destinata a ridursi notevolmente proprio perché è l’industria petrolchimica a subire gli effetti più devastanti della crisi. La Sardegna rischia dunque di diventare drammaticamente il fanalino di coda del Mezzogiorno per la percentuale delle esportazioni sul Pil. Sono molto preoccupanti anche i dati sulle esportazioni agricole e sull’industria agro-alimentare fermi intorno all’1%. Pur non considerando il Pil l’unico indicatore capace di rappresentare il benessere di una società, è indubbio che siamo di fronte ad uno dei maggiori limiti dello sviluppo dell’economia sarda, dovuto anche alle dimensioni delle imprese produttrici, troppo piccole per raggiungere l’efficienza distributiva ed una credibilità adeguata. È notevole anche il grado di dipendenza dalle importazioni, aspetto che consolida ulteriormente la mancanza di autonomia dell’economia isolana.

Da questi dati emerge come, nei decenni trascorsi, le notevoli sovvenzioni pubbliche a sostegno delle iniziative private siano state caratterizzate, se non dal clientelismo, dall’improvvisazione; anziché individuare e promuovere le attività necessarie per porre l’isola al riparo dagli effetti della crisi, sono stati offerti ai privati ‘contributi in libertà’, mai subordinati ai risultati da conseguire. Soprattutto non si è badato alla stabilità dei comparti industriali, né alla loro capacità di tutelare l’ambiente e la crescita dell’occupazione. Anche quando sono emersi i primi segnali della crisi si è continuato con le politiche del rattoppo, della concessione di nuovi contributi nell’illusione che potessero correggere un indirizzo industriale ormai compromesso. Sono mancati, come abbiamo più volte sottolineato, il coraggio e la capacità di avviare le politiche di riconversione dell’economia, in grado di modificare al tempo stesso i nostri modi di produrre. Oggi, sulla scia della crisi che sta travolgendo l’economia mondiale, si parla nuovamente di aiuti su grande scala alle banche e alle imprese, e si prevedono interventi ancora più massicci perché si possano rilanciare le attività produttive e alimentare nuovamente i consumi. È l’unica strada - si sottolinea - perché il sistema economico possa riprendersi e garantire migliori condizioni di vita. Ma ancora oggi nessuno vincola gli investimenti del denaro pubblico ad una svolta, all’obbligo per le imprese perché tutelino l’ambiente e garantiscano nuovi livelli di occupazione. In Sardegna non abbiamo neppure questi segnali. Si profila piuttosto il rischio che venga costruita, dopo l’accordo col governo francese, una delle quattro centrali nucleari di terza generazione (tra le altre cose non viene garantita alcuna soluzione per lo stoccaggio delle scorie).

Non resta che un’alternativa: usare tutte le nostre energie per respingere questa prospettiva e informare, a partire da oggi, tutti i cittadini sardi dei pericoli a cui questo governo irresponsabile ci sottopone. In Sardegna come nel resto del paese c’è bisogno più che mai di lavoro, ma di un lavoro che rispetti la dignità delle persone e possa essere al tempo stesso strumento di crescita culturale e di miglioramento dell’ambiente fisico dove viviamo. Questo diritto oggi è attaccato da un decreto antisciopero che il governo vuole sperimentare nel settore dei trasporti: prevede la comunicazione in anticipo dell’adesione allo sciopero e l’imposizione dello sciopero virtuale, vale a dire l’attività lavorativa senza retribuzione! Naturalmente perché questo disegno venga sconfitto è necessario mobilitarsi con spirito unitario e con una determinazione rinnovata. Ne saremo capaci?